Un thriller che si rifà a leggende di origini medievali e mescola richiami storici a fotogrammi ricchi di azione e tensione narrativa.
È questo, in sintesi, “Il tesoro di Santo Stefano”, primo capitolo della saga letteraria “I delitti della Via Francigena”: non un giallo palpitante di efferati delitti e spargimenti di sangue, ma un racconto piacevolmente cadenzato che dentro una cornice poliziesca nasconde una molteplicità di intrecci narrativi, storie dentro la storia, caratteristiche e indipendenti in se stesse.
Il libro nasce dalla penna di un singolare professore piacentino, Danilo Persicani, classe 1953, geologo di professione e ricercatore presso la Facoltà di Agraria di Piacenza e il Politecnico di Torino fino alla fine degli anni Novanta.
Eclettico negli interessi, Danilo Persicani, capelli sulle spalle, pantaloni a zampa e camicie a fiori, si appassiona prima alla musica rock negli anni Settanta, fondando come bassista una band che, negli anni degli studi liceali, si esibisce in moltissimi locali e apre i concerti di artisti come la PFM, Il Banco del Mutuo Soccorso, i Camaleonti, Ricchi e Poveri, Pooh e tanti altri.
Di quegli anni, ricorda un aneddoto divertente: per guadagnare qualcosa durante l’Università, Persicani accetta di sostituire il bassista di una band durante l’esibizione in un locale che ospita un concerto di Orietta Berti. Suona in compagnia della giovane Orietta fino alle due di notte; alle 8.30 dell’indomani ha un esame importante in Facoltà. Dopo poche ore di sonno, alle sette in punto, Persicani è già in stazione a prendere il treno e riesce ad arrivare in aula alle 8.15. Ma, ad attenderlo, un biglietto del professore: l’esame è spostato alle 18…
Abbandonato il rock, il nostro scrittore approda alla pittura, scoprendo una passione fino ad allora sopita.
È, forse, proprio questo inaspettato interesse per l’arte a farlo incorrere in quello che sarà l’episodio all’origine dell’idea de “Il Tesoro di Santo Stefano”: decide di far valutare ad un architetto e un esperto di storia dell’arte alcune particolarità scoperte nella cantina della sua abitazione, che sorge proprio sulla Via Francigena e scopre, così, la loro origine medievale e la ricchezza di sovrapposizione di stili e strutture risalenti a epoche differenti.
Durante la sua carriera accademica, Danilo Persicani scrive numerosissimi articoli scientifici, pubblicati su prestigiose riviste internazionali, che trattano il tema dell’inquinamento ambientale da pesticidi, radionuclidi e metalli pesanti. All’indomani del disastro di Chernobyl, nel 1986, prende parte anche alle indagini sulla radiocontaminazione ambientale con il Laboratorio di Radioisotopi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, raccogliendo e analizzando campioni di suolo in tutta Italia.
Il suo approccio alla scrittura, dunque, è scientifico e tale rimane per decenni. Fino, appunto, al recente episodio in cantina.
Da quel momento, prende corpo, lentamente, l’idea fondamentale che sta alla base dell’intreccio narrativo del suo romanzo e che si snoda intorno alla celebre via del pellegrinaggio che dalla Francia giunge a Roma ma si tinge di note strettamente attuali con organizzazioni criminali internazionali, omicidi efferati e indagini incrociate condotte con i più moderni sistemi investigativi.
Questa la trama de “Il Tesoro di Santo Stefano”
Il Tesoro di Santo Stefano è una ricca ed importante raccolta di oggetti preziosi di epoca medievale, conservata a Piacenza e trafugata, improvvisamente, dal deposito in cui era custodita in attesa di essere esposta al pubblico.
Delle indagini viene incaricato il commissario De Siris della Questura di Piacenza che inizia la sua attività investigativa per individuare gli autori del furto, raccogliendo informazioni direttamente dal tessuto sociale della città. Purtroppo, almeno inizialmente, il Tesoro sembra essersi letteralmente volatilizzato. I sospetti iniziali ricadono sui depositari degli oggetti trafugati: un architetto francese che è scomparso dal giorno della scoperta del furto, il suo dirigente tecnico ed altri maggiorenti della Fondazione di Santo Stefano proprietaria dell’omonimo Tesoro.
A complicare e depistare le indagini interviene un’organizzazione criminale che semina, sul percorso del Commissario, due cadaveri orrendamente sfigurati, la cui identità resta un mistero.
Pur riuscendo a determinare con certezza l’identità dei reali responsabili del furto, De Siris non riesce a mettere le mani sul Tesoro, che rimane nascosto anche a causa della morte accidentale dell’architetto francese. E così il mistero continua a fare da sfondo a questa leggenda millenaria che sarà ancora al centro di successive investigazioni.