Con il suo romanzo “Non aver paura” ha scalato le classifiche dei più famosi store online, ha vinto moltissimi premi, ha ricevuto l’attenzione di appassionati lettori e critici famosi. Ma soprattutto, con questo suo libro, Carmelo Cossa ha esorcizzato la paura della malattia, della crisi economica, della vita di un uomo onesto improvvisamente travolta e capovolta. Una storia autobiografica che affronta temi delicati e personalissimi, ma proprio per questo, una storia che arriva al cuore del lettore, e che ha il sapore della rinascita.
Conosciamo meglio, allora, Carmelo Cossa e il suo romanzo “Non aver paura”.
- Come è nata la tua voglia di scrivere romanzi? C’è sempre stata o è arrivata a seguito di un evento particolare, un episodio importante della tua vita?
Credo che la mia voglia di scrivere sia nata insieme con me perché già a scuola, quando dovevo imparare le poesie a memoria, mentalmente modificavo alcuni versi, convinto che la lirica ne avrebbe giovato. Quando poi arrivai a Torino e, su consiglio del capo reparto, per mitigare la paura del treno, scrissi la mia prima poesia, mi convinsi che trasferire su carta le proprie sensazioni procurava emozioni dal valore inestimabile. Dalla paura provata di fronte al treno, quel mostro portentoso che correndo mi strappava ai miei cari e alla mia terra, germogliò in me qualcosa che ancora oggi fatico a catalogare. Sono però certo che quel germoglio che ho curato con ogni mezzo a mia disposizione, crescendo, mi abbia accompagnato e lo farà finché continuerò a scrivere emozioni, pensieri e sensazioni che daranno poi vita a poesie, racconti e romanzi.
- Come nasce l’ispirazione? Descrivici la fase preparatoria alla stesura del libro
Ho scritto centinaia di poesie, diversi racconti e alcuni romanzi senza mai fare alcun preparativo. Scrivendo mi piace lasciarmi andare alle emozioni e farmi trasportare dalla fantasia che esse procurano. Se preparassi un percorso attraverso il quale dovrei raggiungere una meta, mi sentirei obbligato a frenare la fantasia per seguire un sentiero che, oltre a imprigionarmi, limiterebbe lo spazio di azione togliendo pathos a ciò che sto scrivendo. Per scrivere “La voce del silenzio”, il mio primo romanzo pubblicato, non usai tanta fantasia perché quel racconto è un giallo che in gran parte può considerarsi autobiografico. E quando si parla di autobiografia, sebbene io l’abbia romanzata, c’è poco da fantasticare.
Quando poi il giornalista Fabio Casalis, che conosceva molto bene le mie liriche, i miei racconti e il mio primo romanzo, mi “accusò” di essere solo capace a scrivere di me stesso, colsi la sfida e, prendendo spunto dal rapimento di una ragazza, scrissi un altro giallo: “Toccare il cielo”, questo il titolo che diedi a quel racconto che, in meno di un anno, divenne il mio secondo romanzo pubblicato.
- Che tipo di scrittore sei: scrivi di getto o prepari scalette, bozze, micro riassunti?
Di solito, quando mi coglie l’ispirazione, scrivo di getto. Porto sempre con me un minuscolo registratore e quando qualcosa bussa alla mente (succede quasi sempre quando sono in macchina) se non riesco a scrivere registro i pensieri del momento e appena posso trasferisco tutto su file con la convinzione e la consapevolezza che quelle righe, dettate spesso alla rinfusa, diventeranno poesia, racconto o romanzo.
Nell’autunno del 2011, invece, quando qualcosa di anomalo cominciò a muoversi nella mia testa procurandomi fitte lancinanti, anche se terrorizzato, cominciai a scrivere ciò che mi stava capitando.
Temevo di non riuscire a portare a termine quella storia, ma sentivo la necessità di raccontare ciò che provavo e ciò che temevo. Un’esperienza del genere non capita due volte, anzi, di solito nemmeno una, nell’arco di una vita. Il pathos, la profondità, l’intensità e la portata di quella malattia quasi improvvisa, mi fecero capire che in un modo o nell’altro dovevo raccontarla. Quando cominciai a scrivere però, non riuscivo a trovare una forma appropriata, una struttura da dare alla narrazione che, in caso si avverasse la dipartita che temevo, potesse esplicitare da una parte l’obiettività della malattia vista dal lato medico e dall’altro l’intensa sensazione umana che un uomo prova quando combatte una battaglia ad armi impari. Cominciai così, nelle lunghe notti insonni, a raccontare i dolori, gli affanni e le paure che questi alimentavano. La prima parte di questo romanzo si concluse la sera prima del ricovero. Salvai il file senza sapere se fosse mai diventato un libro perché temevo di non uscire “intero” da ciò che mi aspettava. Ma dopo l’intervento al cervello, che ha rischiato di imprimere la parola fine alla mia passione di scrivere e a ogni altro mio progetto, ho voluto ultimarlo e pubblicarlo per lanciare messaggi e sfatare alcune convinzioni assurde. Posso solo aggiungere che dopo aver rischiato di morire o di passare il resto dei miei giorni menomato, guardo la vita da una prospettiva che conosce solo chi, anche se in modo inconsapevole, ha visitato l’altra parte del cielo.
- Hai riti propiziatori/abitudini legate alla scrittura?
Riguardo ai riti propiziatori non ne ho, ma sono certo che ci pensi la vita, la natura e gli accadimenti giornalieri a far germogliare, in chi ha la passione di scrivere, quella voglia che spesso diventa necessità. Necessità di raccontare e di raccontarsi che di per sé è già un rito.
Riguardo alle abitudini no, non ne ho. Credo che se dovessi caderci dentro sarebbe la fine della passione di scrivere. Posso però affermare che quando la voglia di scrivere bussa devo soddisfarla subito. Se non lo facessi, e alcune volte succede, va tutto perduto e devo aspettare la prossima volta. Credo che scrivere sia come innamorarsi: non si riesce a farlo né a comando né per abitudine.
- Scrivi sempre in un determinato posto e ad una determinata ora?
Assolutamente no. Ripeto ciò che ho detto in precedenza: scrivo dove e quando mi capita, e spesso capita nei posti più impensabili, perfino in bagno. Aggiungo un fatto che ogni volta che ci penso mi fa sorridere. Un giorno una cara signora che aveva letto alcune mie poesie mi chiese di scriverne una per lei e che fosse attinente alle nozze d’oro. La voleva subito perché avrebbe festeggiato le sue nozze d’oro pochi giorni dopo e avrebbe voluto farla stampare sugli inviti. Bene, dopo un’ora non ero riuscito a scrivere nulla di sensato e la signora andò via quasi infastidita. La sera stessa, ispirato da un discorso ascoltato in televisione, scrissi la poesia, la portai alla signora che, dopo averla letta, si commosse.
- Quali sono gli scrittori e i libri che ti influenzano maggiormente?
Il mio autore preferito in assoluto è Ken Follett; seguono John Grisham, Clara Sanchez e altri. Parlando di autori italiani: Donato Carrisi, Andrea Camilleri, il compianto Giorgio Faletti e tanti altri.
I libri che mi influenzano maggiormente sono alcune decine, ho letto veramente tanto, ma preferisco non citarne nessuno. Posso però aggiungere che alcuni addetti ai lavori, che per ovvie ragioni non nomino, mi hanno “tacciato” di essere un inguaribile sentimentalista con la pretesa di voler trasmettere messaggi che nessuno, specialmente i giovani d’oggi, ascolterà. Sono d’accordo solo in parte perché, sebbene le pagine del mio ultimo romanzo siano disseminate di sentimenti, ci si ritrova spesso di fronte a eventi e a momenti davvero tragici che come pathos non hanno nulla da invidiare ai gialli o ai thriller. Io come lettore rifuggo il vero romanzo di genere per una semplice ragione: quando in un romanzo si parla solo di azione lasciando da parte sentimenti, vita vissuta e vita da vivere in ogni sua sfaccettatura, anche se arrivo sempre fino in fondo, mi lascia un vuoto quasi incolmabile.
Questo è uno dei motivi che mi porta a scrivere romanzi che abbracciano tanti e diversi temi.
- Consigli per gli aspiranti scrittori
Siamo in tanti a essere aspiranti scrittori e non mi sento in grado di dare consigli. Posso però affermare che troppe persone provano a scrivere romanzi senza averne mai letto uno. È superfluo dire che queste persone non riusciranno mai scrivere un libro che sia almeno leggibile. Leggere dovrebbe essere un momento piacevole per ogni scrittore, e ogni lettura dovrebbe lasciare qualcosa che accresca il bagaglio culturale di ognuno di noi. Non credo che negli ultimi anni si possa affermare che ciò avvenga. Sono certo che i grandi scrittori alternino lettura e scrittura come sono convinto che tantissimi principianti abbiano cominciato a scrivere senza aver letto almeno un centinaio di libri.
– Con Parallelo45 hai pubblicato il romanzo autobiografico “Non aver paura”. Puoi riassumerlo in poche righe per i lettori che ancora non lo conoscono?
La storia che oggi rivive in Non aver paura mi ha insegnato che in certi momenti niente conta, neanche la morte, quando si ha una ragione per vivere. E io di ragioni ne ho avute e ne ho ancora tante, ma la più eloquente è raccontare la storia di chi, lavorando in proprio e con la crisi che imperversa, non può permettersi nemmeno di ammalarsi.
È difficile andare avanti quando nella mente affiora con prepotenza un passato che non passa e un futuro che non si riesce nemmeno a immaginare. Così fra una visita e l’altra, fra una litigata con un direttore di banca e una discussione con i collaboratori, sono riuscito a memorizzare il dolore che batteva dentro la mia testa e la rabbia verso chi non voleva capire, per poi raccontarli tutti in un romanzo. E così, intanto che la crisi, quella che non risparmia nessuno e che non ha risparmiato nemmeno me, avanzava tentando di bruciare i miei sogni, io scrivevo. Scrivevo con la speranza che il dolore nella mia testa sparisse e che il lavoro si riprendesse. Ma le speranze si riducevano giorno dopo giorno. Dodici ore in ditta, divise fra ufficio e laboratorio, e poi a casa a sfogare il mio tormento sulla tastiera. Tutto sembrava procedere per il meglio e ancora una volta la scrittura mi ha rapito aiutandomi a non soccombere.
Ma non sapevo che la vera battaglia era lì ad attendermi, ad assorbire ogni mia forza e ogni mio pensiero: le visite e gli esami a cui il medico di famiglia mi ha sottoposto sentenziavano un aneurisma al cervello. La malattia mi ha costretto ad abbandonare il lavoro e il romanzo appena iniziato per lottare con tutte le mie forze, non più solo per la ditta, ma per la mia vita appesa a un filo che vedevo assottigliarsi giorno dopo giorno. A questo si era aggiunto l’annoso problema: chi lasciare alla guida dell’azienda.
Avrei avuto bisogno di riflettere e di inventarmi qualcosa per tenere in piedi l’azienda e non lasciare a casa i miei dipendenti. Ma il neurochirurgo era stato perentorio: non c’è tempo. L’aneurisma avrebbe potuto rompersi da un momento all’altro e io dovevo essere operato. Subito! Un salto nel buio, un intervento al cervello.
– Come è nata l’idea di raccontare in un romanzo il dramma personalissimo e privato che hai vissuto in prima persona e quali sono le ragioni che sottendono a questa scelta?
L’idea nacque ancora prima di conoscere la gravità del problema nella mia testa e, come ho già accennato all’inizio dell’intervista, è la vita che ci “regala” i motivi per scrivere e io l’ho afferrato al volo. Il dramma privato e personale vissuto in prima persona ho provato a raccontarlo all’inizio senza la certezza di poterlo ultimare. Alla fine però, quando compresi che ero vivo e che, anche se lentamente, mi stavo riprendendo, decisi che dovevo farlo. Lo dovevo a loro: alle persone straordinarie come il Professor Gabriele Panzarasa e la sua formidabile equipe. Lo dovevo all’associazione “Amici della Neurochirurgia Enrico Geuna” dell’Ospedale Maggiore di Novara che si adopera per migliorare il reparto e le tecniche di intervento sempre più mirate e sempre meno invasive. Lo dovevo anche a me e a chi mi è stato vicino. Lo dovevo anche alle tante persone malate che temono di non farcela e, come ha scritto il quotidiano “La Stampa” nella pagina di Novara, “ha sconfitto due aneurismi, ora scrive per aiutare gli altri”. E io mi auguro di aiutare veramente tante persone. Dovevo ultimare il romanzo per placare il desiderio di fare qualcosa per quel reparto in cui, grazie alla straordinarietà e alla professionalità di tutto il personale, ho avuto la possibilità di vivere il secondo tempo della mia vita.
– Ci sono aneddoti particolari e cose simpatiche che ti sono accadute mentre lo scrivevi?
Sì, durante uno degli ultimi controlli che feci dopo il primo intervento, chiesi al Professor Panzarasa se avesse potuto dare un’occhiata al romanzo, almeno la parte che riguardava la tecnica dell’intervento sulla quale mi ero documentato sia con lo stesso Professore sia con il personale medico del reparto. Non ero però certo di aver compreso e di aver scritto correttamente e pregai il Primario di correggere eventuali errori sia nei termini tecnico-medico sia in termini temporali. Mi guardò come fossi un marziano e disse: “Non posso credere che abbia già scritto il romanzo che aveva promesso”. Non dimenticherò mai la sorpresa che lessi sul suo volto quando afferrai il manoscritto dalla borsa e glielo diedi.
Un altro particolare che desidero raccontare è che nessuno, fra amici, parenti e conoscenti, avrebbe scommesso un centesimo sul fatto che io pubblicassi fatti tanto personali. Questa è stata una doppia soddisfazione perché credo che la lettura di questo romanzo, oltre a essere un’esperienza per tutti, possa dare sollievo e fiducia a tante persone che si trovano o che dovessero trovarsi ad affrontare ciò che ho affrontato io.
– Con “Non aver paura” hai avuto un successo forse inaspettato, sia di critica, che di pubblico. Come lo spieghi? Quali sono secondo te gli aspetti di questo libro che hanno determinato un così largo coinvolgimento da parte dei lettori e un apprezzamento così solido della critica?
Credo che uno dei tanti sia lo stesso motivo per il quale nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul fatto che io pubblicassi un romanzo che parla di particolari tanto personali. Sono certo che ogni autore, anche se scrive di fantasia, metta qualcosa di suo in ogni racconto. Quando però si scrivono storie vere, lo si fa con l’anima e chi legge lo percepisce.
Un altro motivo, e questo l’ho appurato durante le tante presentazioni del romanzo, e che la gente è così abituata a sentir parlare male della sanità italiana che fatica a credere che io ne parli così bene.
Credo che il coinvolgimento dei lettori sia dovuto all’umanità, alla riconoscenza, alla semplicità e ai sentimenti che il protagonista nutre verso chi si adopera per gli altri in generale. Allo stesso tempo, però, credo che un altro tipo di coinvolgimento sia dovuto alla rabbia del protagonista rivolta a chiare lettere alle persone e alle nefandezze che queste, lavorando per banche e istituzioni senza scrupoli, perpetrano nei confronti di chi rischia di soccombere.
Sono certo che anche la critica e la carta stampata, come si evince da vari articoli, si sia “schierata” dalla parte del protagonista, dalla parte della sanità italiana, quella parte fatta di persone che meriterebbero un encomio ogni giorno e, per una volta, contro banche e istituzioni che rischiano ogni giorno di “affossare” chi ha ancora voglia di fare impresa, colpevole però di essersi ammalato.
– Quali sono stati gli apprezzamenti, e anche le critiche, al tuo libro che ti sono rimasti più impressi?
Comincio dalle critiche che, a parte qualche piccola variazione, mi accusano tutte della stessa cosa: nessuno avrebbe mai reso pubblico ciò che ho passato e, anche se avesse deciso di farlo, non avrebbe mai raccontato i particolari. Io invece l’ho fatto e lo rifarei ancora perché certe cose vanno raccontate. Un’altra critica, spesso anche forte, è che io ce l’abbia con i giovani. Posso solo dire che non è assolutamente vero e che ho solo provato a spronarli affinché nella vita si adoperino per migliorarsi e per comprendere quali sono le cose che contano davvero e quali quelle che se non ci fossero sarebbe meglio per tutti.
Gli apprezzamenti sono tanti e svariati, ma i più gratificanti sono i seguenti:
– Hanno scritto e ripetuto più volte che con una narrazione semplice, piacevole e fluida, sono riuscito a dare al lettore la stessa forza di volontà che il protagonista mette in campo nell’affrontare gli eventi che si susseguono nel percorso della sua malattia e nei disperati tentativi di tenere in piedi la ditta e non lasciare a casa nessun collaboratore.
– I critici hanno anche detto che i sentimenti disseminati fra le pagine e l’amore racchiuso fra le righe, rendono meno drammatici i momenti in cui il protagonista rischia di soccombere su diversi fronti, e in diversi momenti. Questo rende la lettura del romanzo un momento di vera e piacevole emozione.
– Qual è il messaggio che “Non aver paura” vuole trasmettere?
Il primo in assoluto e che con la paura non si va da nessuna parte e, anche se io ne ho avuta veramente tanta, vorrei dire a tutti di non averne. Di non temere di soccombere a un intervento al cervello perché la sanità italiana è veramente all’avanguardia e, se anche ci fosse una sola possibilità, i neurochirurghi italiani la sfrutterebbero al meglio. Non bisogna nemmeno temere di far sentire le proprie ragioni all’interno delle istituzioni dove spesso, al contrario di chi lavora veramente con amorevole passione, si trovano addetti che fanno tutto con approssimazione, infierendo contro chi avrebbe invece bisogno di una mano per trovare il bandolo della matassa.
Vorrei esortare i giovani a fare! Durante le presentazioni del libro, dopo questa mia affermazione le domande che si susseguivano erano sempre le stesse: che cosa dovremmo fare?
Anche la mia risposta era la stessa: l’importante è fare e non oziare riparandosi dietro la scusa della crisi.
Vorrei anche dire ai giovani di non imparare il prezzo delle cose ma solo il loro valore e di non sentirsi mai arrivati, perché il giorno che uno si sente arrivato smette di sognare e senza sogni la vita diventa monotona.
– Chi è la prima persona a cui hai fatto leggere “Non aver paura”?
Avevo chiesto al primario di dare un’occhiata alla parte tecnica dell’intervento, ma dopo una decina di giorni mi comunicò che l’aveva letto tutto e mi spronò a pubblicarlo.
– Quali sono i tuoi progetti futuri? Hai già un’idea per il prossimo romanzo?
I miei progetti futuri sono i seguenti: affidare l’azienda a qualcuno in grado di portarla avanti, andare in pensione e dedicarmi anima e corpo alla lettura e alla scrittura di tanti romanzi che stanno bussando con prepotenza alla porta della mia passione di scrivere.
L’idea per il prossimo romanzo è già concreta e la stesura sarà ultimata all’incirca per la fine dell’anno. Poi, dopo i classici tre-quattro mesi di allontanamento, lo rileggerò e, dopo le opportune correzioni e/o modifiche, lo invierò come ho fatto con gli altri in cerca di fortuna. Sarà di nuovo un romanzo corale che abbraccerà ancora i temi della modernità. Di questa modernità che a mio modesto parere sta distruggendo ogni cosa.
Grazie per questa gradita intervista.